Poco eseguito, il colossale e intenso Stabat Mater di Dvorak ha conquistato il pubblico della cattedrale di San Vito durante la settimana santa.
Quando si parla di Antonín Dvořák il pensiero corre immediatamente a due cose: alle nove sinfonie composte tra il 1865 ed il 1893 - e sopra tutto alla celeberrima Sinfonia dal Nuovo Mondo - e alle colorate Danze slave op. 46 e op. 72. Meno note sono, almeno fuori di patria, le altre numerose composizioni orchestrali (suites, ouvertures, poemi sinfonici, concerti), ed i 14 quartetti per archi, fulcro delle sue composizioni da camera. Ma ancor meno conosciuti sono i suoi lavori di carattere religioso, con un'unica eccezione: l'imponente Stabat mater op. 58 per soli, coro ed orchestra che gode di una certa popolarità. In realtà,il repertorio sacro del massimo maestro ceco, che tra l'altro compì i suoi studi musicali a Praga alla Scuola per Organo, ricoprendovi poi dal 1873 la carica di organista della chiesa di Sant'Adalberto, non annovera molti titoli, tutti però di una certa ampiezza: oltre allo Stabat annovera infatti l'oratorio Santa Ludmilla op. 71 (1886), la Messa in re op. 8 ed il possente Requiem op. 89 (entrambi del 1890), e per finire il Te Deum op. 103 (1892). Lo spartito dello Stabat Mater op. 58 – prima della pubblicazione presso l'editore tedesco Simrock nel 1881, già catalogato come op. 28 – venne elaborato da Dvořák in un arco di tempo tutto sommato breve, tra il febbraio ed il maggio 1876, come reazione emotiva alla perdita della figlia Josefa deceduta pochi giorni dopo la nascita. L'orchestrazione del lavoro però venne affrontata solo un anno dopo dopo, quando il musicista decise di ritornare sulla partitura momentaneamente accantonata a favore di altri impegni. Ciò avvenne a seguito di altri due gravissimi lutti familiari succedutisi in breve tempo, tra l'agosto ed il settembre 1877: la secondogenita Ružena morì infatti per aver bevuto da una bottiglietta di soluzione fosforosa, e il figlio primogenito Otokar la seguì nella tomba di lì a poco per un'infezione di vaiolo. Il dolore per l'essere rimasto in brevissimo tempo senza nessuno dei propri figli, spinse il maestro ceco a riprendere in mano nei mesi seguenti lo Stabat Mater, quasi fosse una sorta di immensa preghiera di consolazione. Il lavoro finito venne eseguito per la prima volta sotto la direzione di Adolf Čech a Praga il 23 dicembre 1880, presso la sala della Jednota umělců hudebních (l'Associazione musicale degli artisti) con i gruppi del České prozatímní divadlo (il Teatro Provvisionale Ceco), avendo quali solisti Eleanora Ehrenberg, Betty Fibich, Antonín Vávra e Karel Čech. Il collega Leoš Janáček la volle dirigere a Brno il 2 aprile 1882; gli entusiatici consensi raccolti in entrambi i casi promossero molte altre successive esecuzioni, tra cui vale la pena di ricordare quella organizzata nel corso della tournée inglese del 1884, quando Dvořák stesso lo diresse alla Royal Albert Hall alla testa di un grandioso organico che comprendeva oltre 800 coristi.
I versi in latino medievale dello Stabat Mater, tradizionalmente attribuiti a Jacopone da Todi, meditano su due temi fondamentali: il dolore angosciato di Maria per le sofferenze e la morte del Figlio, cui l'orante si associa fervidamente, e l'invocazione che essa si faccia mediatrice di salvezza nel Giorno del Giudizio. Il testo di Jacopone venne musicato, com'è noto, da un grande numero di autori (tre fra tutti: Pergolesi, Rossini, Verdi) che in genere foggiarono composizioni di 'normali' proporzioni. Ben altre invece le dimensioni conferitegli da Dvořák, che si vide crescere tra le mani una vasta e complessa partitura per soli (soprano, contralto, tenore e basso), coro a quattro voci e grande orchestra con organo, più simile ad un oratorio che ad una cantata: già il movimento iniziale, un Andante con moto di sapore bachiano - la mente vola senza volere all'apertura della Matthäus Passion - preceduto da un'ampia introduzione orchestrale cui fa seguito l'intervento di tutte le voci, da solo dura un quarto d'ora mentre l'intera composizione, articolata in dieci movimenti, conta in totale circa 90 minuti di musica. Eppure il miracolo compiuto dal maestro boemo, nonostante tali fondamenta di scultorea grandiosità, sta nel non cedere mai alla magniloquenza, instaurando un clima di profondo e riflessivo raccoglimento, e mantenendo con l'ascoltatore un rapporto intimo, quasi colloquiale; un clima che esalta i motivi dell'umano dolore e della ricerca del conforto religioso, procedendo verso una speranza di pace che trova la sua definizione nella solarità dello squillante Amen finale. Quanto allo stile in sé, Dvořák approda ad un'ammirevole fusione tra l'immediatezza melodica della scuola slava e la sapienza compositiva dell'insegnamento tedesco, inserendosi con autorevolezza nella grande tradizione oratoriale di sapore classico che gli arriva da Bach e Händel attraverso Haydn, Beethoven e Mendelssohn; la stessa tradizione, cioè, con cui dieci anni prima aveva saldato i conti Brahms con il suo altrettanto possente Deutsche Requiem.
Tanta grandezza musicale e spirituale ha ricevuto una esaltante dimostrazione grazie all'esecuzione tenutasi la sera del Martedì Santo nella barocca Cattedrale di San Vito, e proposta dalle efficienti maestranze del vicino Teatro Nazionale Croato Ivana pl. Zajca di Fiume/Rijeka, presenti con Coro ed Orchestra nella loro pienezza. Su di loro, il vigile e saldo comando della loro responsabile musicale, Nada Matošević Orešković, che ha affrontato questo grande poema religioso con notevole maestria, sia nell'esaltare appieno le pagine di imponente drammaticità, sia esplorandone con fine sensibilità i momenti di doloroso lirismo.
Senz'altro qualificato il quartetto di solisti composto dal soprano Olga Kaminska, dal valente contralto Nataša Jović Trivić (timbro brunito e vellutato, straordinario in «Inflammatus et accensus»), dal tenore Sergej Kiselev e dal basso Slavko Sekulić, voce che ha primeggiato per intensità comunicativa e autorevolezza sia nei pezzi d'insieme, sia nel cimento solistico di «Fac ut ardeat cor meum». Esecuzione in definitiva intensa, precisa, ammirevole, resa di fronte ad un pubblico attento e numerosissimo, che ben valeva il lungo viaggio affrontato da chi scrive.